Montisola nella rete
Viaggio sul Lago d'Iseo, tra pesca e bellezze naturali
Il lago d’Iseo, allungato e sottile, sembra stringere le proprie spire attorno a Montisola, dall’aspetto solido e roccioso, che svetta sulle acque come un grosso cristallo di malachite da cui è impossibile distogliere lo sguardo.
Lupi di lago
Non ci sono imbarcazioni, in giro: sembra che ci sia solo il nostro traghetto a fendere le acque blu del lago. Tutto sembra tranquillo e silente, dandomi un’idea piuttosto precisa di come possa sentirsi un pescatore sul suo naèt, la tipica imbarcazione di questi profondi laghi ai piedi delle Alpi.
Me lo immagino in attesa, in equilibrio precario sul fondo piatto di questa imbarcazione pesantissima, cinta com’è da uno spesso e resistente fasciame di castagno selvatico. Lo vedo assopirsi per un attimo, aggrappato al lungo remo col quale ha attaccato le acque del Sebino fin dalle prime luci dell’alba; lo vedo altresì riscuotersi, richiamato dalla tensione nella rete. Deve aver catturato qualche agone, meglio conosciuto come la lenta sardina di lago, che la sardenera trattiene con le sue fitte maglie e la tensione morbida. Rinvigorito dal suo bottino, lo vedo infine imbracciare di nuovo i remi incrociati e dirigersi verso casa, dove lo attende un lauto pranzo a base di curadura, polenta abbrustolita e insalata matta.
Produzione specializzata
Le mie fantasticherie vengono però interrotte dall’approdo nel piccolo porticciolo di Peschiera Maraglio, dove i miei sogni agresti e bucolici si infrangono, schiacciati contro l’evidente carattere di cittadina rivierasca e prettamente turistico di questa frazione isolana. Le uniche barche ormeggiate che vedo, tutto possiedono tranne l’affusolata forma del naèt; tuttavia diverse botteghe reclamizzano la specialità dell’isola, ovvero le famose sardine essiccate e il salame di Montisola. Senza darmi per vinta, comincio dunque ad aggirarmi per le vie fin troppo trafficate alla ricerca dei famosi arconi.
A Montisola la pesca è regolamentata fin dal Medioevo: la tradizione è dunque lunga e l’isolano non poteva che arrangiarsi con le risorse offerte dal monte e dall’acqua dolce, specializzandosi nella produzione di qualcosa che, prima di diventare tipicità, gli serviva principalmente per sopravvivere.
Ma andiamo per ordine. Quest’isola, che in realtà è un monte per la sua conformazione richiedeva che certi compiti, come quello della produzione, venissero divisi per zone. La parte alta dell’isola, un ambiente praticamente montano, era deputato alla preparazione dei materiali per la filatura delle reti. La parte bassa, rivierasca, era prettamente dedita alla lavorazione del pescato e di tutto quello che concerne la pesca.
Nelle case, le donne lavoravano le fibre naturali al punto da creare delle architetture incredibili, chiamate reti da pesca; si dedicavano anche al rammendo e, in breve tempo, il frutto delle loro mani esperte si diffuse oltre Montisola. Non si producevano solo reti per la pesca, ma anche per la caccia – nel 1400 si praticava in questo modo – per le amache e per lo sport. Ancora oggi quest’isola del lago d’Iseo è famosa nel mondo proprio per la tessitura che, sebbene da tempo sostenuta da una produzione di tipo industriale, affonda le proprie radici in una tecnica che si tramanda di generazione in generazione fin dall’anno Mille.
Le sardine di lago
Ed è qui che arriviamo alla pesca vera e propria. Gli agoni – o sardine di lago, o missoltini che dir si voglia – stazionano sul fondo sassoso del lago, e la rete, con un’estremità ancorata a riva e l’altra alla barca, li intrappola chiudendosi con un movimento semicircolare. Il periodo di cattura è quello di giugno e luglio, dopo che gli agoni hanno deposto le uova. È però vero che, se i più pregiati sono quelli di maggio – i missoltini con la fregola sono i migliori – la pesca, nel periodo primaverile, è vietata.
Una volta puliti e conditi con del sale – la cui quantità è segreta – gli agoni riposano per due giorni prima di essere appesi sugli arconi: si tratta di strutture in legno su cui i pesci restano ad essiccare per un mese. Gli arconi sono così caratteristici che, a Montisola, il cognome più diffuso è proprio Archetti, a marcare il collegamento con questo prodotto dell’ingegno umano.
In seguito, le sardine di lago vengono poste sott’olio, in modo che possano conservarsi per anni. Vengono disposte, a raggiera, in un contenitore di legno o latta insieme alle foglie d’alloro; il coperchio viene poi appesantito con dei sassi per eliminare tutta l’aria e l’olio in eccesso, alla maniera dei paesi baltici. Nel momento in cui si deciderà di consumarli, verranno lavati con acqua tiepida e aceto, grigliati e conditi con prezzemolo, olio e, di nuovo, aceto. Vengono serviti, tradizionalmente, con polenta abbrustolita (tòch) e insalata di tarassaco (insalata matta), mentre le interiora andranno a formare la curadura, ovvero una frittura con la cipolla.
In questa mia gita al lago d’Iseo, l’impietoso sole di agosto mi ricorda che il periodo di pesca dell’agone è finito da almeno due settimane; non ci sono nemmeno gli arconi, probabilmente conservati in casa durante il resto dell’anno. La passerella galleggiante di Christo, ormai uno scheletro bianchiccio scomposto nei pressi di Sulzano, mi ricorda i racconti di chi ha avuto l’ardire di camminarvi sopra, e mi lascia altresì immaginare quanto deve essere stata affollata quest’isola bella, e quanto i pescatori debbono essersi preoccupati per le slanciate strutture in legno e giunchi esposte alla folla.
Mi devo accontentare della riproduzione di tre piccoli archetti posta a Peschiera Maraglio; invece dei contenitori in legno per la misolta, se voglio portarmi a casa qualche agone ho la possibilità di comprarne tre, conservati in un moderno e poco invitante sacchetto di plastica sottovuoto.
Fendere le acque
In compenso, passi curiosi mi portano a sbirciare direttamente il laboratorio di un fabbricatore di barche. Un Archetti anche lui, tanto per cambiare. L’odore di legno e impregnante si comincia a percepire già in lontananza, ancor prima di intravedere il lungo capannone che sorveglia il lago.
Nella penombra dello stabile, comincio a distinguere delle forme: pance di barche, scheletri, parti che non sono in grado di riconoscere. Scatto qualche foto, affascinata da una barca biancastra non ancora lucidata dagli agenti chimici, appesa al soffitto.
Proseguo lungo questa strada ormai oscurata dalla montagna la cui ombra il tramonto vi proietta, interdetta dall’occhiata incuriosita di un uomo all’interno della fabbrica. Poco più avanti, mi affaccio da una finestrella priva di vetro, che sembra dare su uno stanzone posto ad un livello più basso della strada.
Le pareti di intonaco bianco sembrano brillare della luce riflessa del Sebino e cullano questo corpo affusolato di mogano rossastro, adagiato su un fianco come un guscio spaccato. Non ci sono remi né sartiame, eppure lo slancio di questa imbarcazione è ben riconoscibile. Non può essere che lui: finalmente, il naèt.