La “bbarka” del Lago di Bolsena
L'imbarcazione di epoca etrusca usata dai pescatori del lago
Dal XIX secolo ad oggi è in uso, sul lago di Bolsena, una barca tradizionale da pesca denominata in dialetto locale bbarka.
La struttura
La fabbricazione di questa imbarcazione, considerando le modificazioni che sono avvenute nel corso dei secoli (si ritiene che il prototipo risalga addirittura all’epoca degli Etruschi) rispetta rigorosamente determinati canoni: la forma è triangolare, la prua è leggermente rialzata e il fondo è piatto e permette allo scafo di scivolare sulla superficie dell’acqua. La particolarità della bbarka è data dalla posizione dei due remi, asimmetrici, dei quali uno, detto rosta, funge anche da timone. Occasionalmente potevano essere utilizzati altri due remi, quattro in tutto. I remi non sono tenuti feri dalla biforcazione dello scalmo perché in questo tipo di barca non è presente, ma venivano legati ad un’asta di ferro con lo stropjo, una corda fatta con pezzi di rete. La barca è vogata in piedi, come le gondole veneziane, ma in alcuni momenti i pescatori usavano anche una piccola vela issata su due alberi, detti r puntòne e ‘r puntoncèllo.
I mastri d’ascia ponevano particolare attenzione nel rispettare le misure della barca che in lunghezza non doveva essere inferiore ai cinque metri e non superare i sette. La larghezza massima era di centosettanta centimetri. La forma e le misure consentivano alla barca di affrontare le turbolenze del lago, preservando la vita dei pescatori. Per questa ragione la bbarka è considerata un piccolo esempio di ingegneria navale.
I materiali
Nel corso degli anni sono stati usati vari tipi di legno: essenze locali, come il cerro, ma anche legni esteri come l’iroko e il mogano. Quando si usava il cerro, la scelta della pianta era importante; doveva essere una pianta alta, dritta e liscia. Per il taglio era necessario attendere l’inverno, non prima di ottobre/novembre, cioè quando la pianta era a riposo. Il primo lavoro lo svolgeva il boscaiolo che, dopo il taglio, eliminava i rami e squadrava il tronco con l’accetta. Dopo si procedeva al taglio con una grossa sega, ricavandone tavole di sette metri. Prima di essere utilizzate, le tavole dovevano stagionare per circa sei mesi al sole e all’acqua. Per costruire lo scafo si utilizzavano dieci tavole di cerro, tre per ogni fianco e quattro per il fondo, tenute insieme da tavolette e da costole realizzate con rami di olivo.
Un mestiere scomparso
Uno degli ultimi mastri d’ascia del Lago di Bolsena è stato Luigi Papini che ha costruito anche l’esemplare esposto nel Museo della Navigazione nelle Acque Interne di Capodimonte. Papini racconta di aver appreso il mestiere dal padre, insieme al quale riusciva a fabbricare una barca e mezza alla settimana, lavorando quasi di continuo. Se ben tenute queste barche potevano durare anche quindici o sedici anni. Attualmente le barche, identiche come forma e misure, non sono più costruite in legno, ma in resina, e sono dotate di un motore fuoribordo o entrobordo. Questo ha causato la scomparsa di un mestiere tipico e di grande fascino come quello dei mastri d’ascia.
I registi Ebe Giovannini e Maurizio Pellegrini hanno realizzato un documentario, ora conservato nella cineteca del Museo della Navigazione, in cui Luigi Papini raccontò con grande dovizia di dettagli in che modo si fabbricavano le bbarke, insieme alle testimonianze dei pescatori più anziani. Il documentario, dal titolo L’ultimo mastro d’ascia, è anche visibile sul canale Youtube del Museo della Navigazione.